La Suprema Corte, con l’ordinanza 27.01.2025, n. 1861, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, confermando che l’accertamento induttivo può legittimamente essere effettuato anche nei confronti di piccole imprese in regime di contabilità semplificata che non predispongono un inventario analitico delle rimanenze. Tale omissione aveva portato l’Agenzia delle Entrate a procedere con un accertamento induttivo, ritenuto pertanto legittimo dai giudici di legittimità.
La pronuncia si ricollega all’art. 39, c. 2 D.P.R. 29.09.1973, n. 600, che prevede la possibilità di determinare il reddito su base presuntiva quando si riscontri l’inattendibilità della contabilità. Pur essendo rivolto a tutte le imprese, il principio trova specifica applicazione anche in quelle di più piccole dimensioni, le quali potrebbero ritenersi erroneamente esonerate dalla tenuta di un inventario analitico delle merci.
In realtà, come sottolineato dai giudici di legittimità, anche gli operatori in contabilità semplificata sono obbligati a indicare in modo chiaro, per ogni periodo d’imposta, la quantità delle rimanenze, suddivise per gruppi omogenei, nonché il relativo valore. Tale indicazione, precisa la Cassazione, costituisce uno strumento imprescindibile di controllo per l’Amministrazione, poiché permette di confrontare i beni risultanti nel magazzino con quelli effettivamente venduti, a garanzia della veridicità delle scritture.
Il regime di contabilità semplificata, disciplinato dall’art. 18 D.P.R. 600/1973, è previsto per le imprese di dimensioni ridotte che beneficiano di una semplificazione degli adempimenti contabili. Tuttavia, questo non esonera il contribuente dall’obbligo di indicare, in sede di dichiarazione dei redditi, le rimanenze finali di magazzino. Le rimanenze di magazzino rappresentano un elemento cruciale per la determinazione del reddito d’impresa, poiché incidono direttamente sulla quantificazione del risultato economico dell’esercizio.
La loro corretta valutazione è disciplinata dall’art. 53 D.P.R. 597/1973, che prevede l’obbligo di distinguere i beni per tipologia e qualità, attribuendo a ciascuna categoria un valore che deve essere riportato in modo analitico. L’assenza di tali indicazioni, unitamente alla mancata annotazione del valore complessivo delle rimanenze, costituisce una violazione della normativa fiscale, poiché impedisce all’Amministrazione Finanziaria di verificare la corretta determinazione del reddito imponibile e per questo giustifica l’applicazione delle metodologie di accertamento previste dall’art. 39, c. 2 D.P.R. 600/1973.
Sulla base di questo ragionamento, la Cassazione ha ribadito che l’assenza di una documentazione analitica sulle rimanenze rende “inattendibile” la contabilità ai fini fiscali, aprendo la strada all’utilizzo degli strumenti di accertamento presuntivo.
È doveroso ricordare che, secondo la giurisprudenza consolidata (cfr. Cass. n. 8907/2018), la contabilità semplificata non può essere intesa come una deroga agli obblighi fondamentali di trasparenza e tracciabilità dei dati contabili. La corretta tenuta del registro dei beni, suddivisi in categorie omogenee, è fondamentale per garantire la coerenza tra il valore delle rimanenze iniziali e finali, che rappresentano un elemento cardine per la determinazione del reddito d’impresa. Pertanto, in assenza di documentazione analitica e completa, l’Amministrazione Finanziaria è legittimata a ricorrere all’accertamento induttivo, basandosi su elementi presuntivi e indiziari.
Da Sistema Ratio